MICROPLASTICHE

A RISCHIO LA FERTILITA’ FEMMINILE E LE ARTERIE
Le microplastiche che tutti assorbiamo sia attraverso il cibo e l’acqua, sia con la respirazione, si depositano anche nei tessuti dell’ovaio e nelle placche che si formano nelle arterie carotidi del collo, con conseguenze sulla salute ancora da decifrare nel dettaglio, ma quasi di sicuro negative. E i metodi oggi disponibili per filtrarle dall’acqua potabile non riescono a eliminarle tutte, con il risultato che ne rimettono in circolazione una certa quantità.
Non sono buone notizie quelle che arrivano da tre studi usciti quasi in contemporanea nei giorni scorsi, ma se non altro aggiungono ulteriori tasselli al quadro che si sta faticosamente cercando di comporre, relativo alle conseguenze sulla salute di questi materiali ubiquitari, e a tutti i limiti associati ai metodi di analisi e di neutralizzazione della loro presenza.
Plastiche nei tessuti del sistema riproduttivo
L’Italia è in prima fila in questo tipo di studi, e una delle conferme è la ricerca pubblicata su Ecotoxicology and Environmental Safety dagli esperti dell’Università di Salerno, che per la prima volta descrive la presenza di microplastiche nei liquidi che circondano i tessuti dei follicoli ovarici: un riscontro che potrebbe spiegare, almeno in parte, la diminuzione della fertilità che si vede un po’ in tutto il mondo, e le cui cause sono ancora poco chiare. In essa, gli autori hanno analizzato 18 campioni di liquido follicolare di pazienti che si stavano sottoponendo a trattamenti per l’infertilità, e hanno trovato microplastiche (frammenti con diametro inferiore ai dieci millesimi di millimetro o micron) in 14 di essi. La concentrazione media era di 2.191 particelle per millilitro, il diametro medio di 4,48 micron.
La concentrazione di microplastiche è apparsa collegata a quella di uno degli ormoni più importanti per la riproduzione, l’FSH o follicolo-stimolante, mentre un’associazione meno forte, dal punto di vista statistico, è emersa con l’indice di massa corporeo, con l’età e con la concentrazione di un altro ormone fondamentale, il 17 beta estradiolo. Non sembra invece esserci un rapporto con un terzo ormone, quello anti- Mülleriano, anch’esso coinvolto nella riproduzione, con il numero di aborti, con l’esito delle gravidanze e numero di bambini nati vivi.
Secondo gli autori, la presenza di microplastiche nel liquido follicolare, così come le alterazioni con l’FSH possono spiegare, in parte, le difficoltà di concepimento, come del resto è stato ampiamente dimostrato nei modelli animali. Le microplastiche sarebbero dunque responsabili, almeno in parte, delle alterazioni della fertilità femminile.
Le microplastiche nelle placche della carotide
Si ricollega (esplicitamente) all’Italia anche la seconda ricerca, presentata al meeting annuale dell’American Heart Association svoltosi nei giorni scorsi a Baltimora. In questo caso, infatti, i ricercatori della University of New Mexico di Albuquerque sono partiti da uno studio pubblicato nel 2024 da altri ricercatori campani, che aveva dimostrato, per la prima volta, la presenza di micro- e nanoplastiche nelle placche aterosclerotiche asportate da circa trecento persone.
Per approfondire quel riscontro, gli autori hanno analizzato i campioni di una cinquantina di persone, suddivise in tre tipologie: persone con arterie sane, soggetti con placche aterosclerotiche ma senza sintomi, e individui con placche e sintomi, oppure che avevano già avuto conseguenze più gravi come ictus, ictus transienti o cecità temporanea, tutte manifestazioni di una temporanea occlusione della carotide. Inoltre, hanno misurato alcuni marcatori dell’infiammazione e l’espressione di alcuni geni, per verificare il nesso con la presenza delle microplastiche. Il risultato è stato che, rispetto ai campioni di controllo, le placche di chi non aveva avuto stintomi contenevano un quantitativo di microplastiche più elevato di circa 16 volte (895 microgrammi/grammo versus 57 microgrammi/grammo).
Il rapporto saliva addirittura a 50 volte per chi aveva già avuto conseguenze come un ictus. Non sono emerse, invece, associazioni con i marcatori dell’infiammazione, ma solo una diminuzione dell’attività dei geni che esprimono i macrofagi che la controllano. Allo stesso modo, sono risultate alterate le cellule di supporto che di solito stabilizzano le placche, entrambi fattori che possono aumentare (anche di molto) i rischi.
Acqua e cibo
Anche se ci sono diverse limitazioni da tenere presenti, come la difficoltà nel rilevare il numero di microplastiche e soprattutto di distinguerle da alcuni tipi di lipidi (che hanno un profilo simile, se analizzati con alcuni metodi diagnostici) o l’impossibilità di dimostrare un rapporto di causa ed effetti tra la presenza dei frammenti e gli eventi come gli ictus, i rapporti numerici sono abbastanza impressionanti, e suggeriscono di condurre ulteriori ricerche, anche nel solco di quanto pubblicato dai ricercatori italiani.
Nel frattempo, poiché la fonte principale di assorbimento delle microplastiche, secondo gli autori, è il cibo (compresa l’acqua), ciascuno può provare a limitare le quantità, per esempio, evitando gli alimenti e le bevande confezionate con materiali plastici.
Microplastiche nelle acque potabili
Infine, non lascia molto spazio all’ottimismo la review pubblicata su Science of the Total Environment dai ricercatori dell’Università del Texas di Arlington, anche se individua gli aspetti più lacunosi dei metodi attuali, e indica le priorità. In essa, infatti, l’analisi di oltre 200 studi (pubblicati tra il 2016 e il 2024) giunge alla conclusione che non esiste, a oggi, un sistema efficace per eliminare tutte le microplastiche dalle acque potabili. Alcuni le abbattono, ma nessuno le riduce a zero. Uno dei motivi è il fatto che i sistemi di filtrazione sono stati messi a punto per eliminare sostanze organiche o inorganiche solubili, ma non contaminanti ambientali come le plastiche (o, per esempio, i farmaci, o i metalli pesanti).
Ciò che emerge con forza, quindi, è soprattutto l’inadeguatezza di tutta la filiera, dalla definizione di micro- e nanoplastiche ai metodi di analisi, fino a quelli di eliminazione, nei diversi paesi. Per questo, secondo gli autori, la prima cosa da fare è trovare standard internazionalmente condivisi, dai quali partire per ottimizzare tutti i passaggi e cercare di eliminare la plastica almeno dall’acqua che arriva nelle case.